Dalla confisca al crac per gli 11 milioni di debiti col Fisco: quando lo Stato fa fallire se stesso
La Grandi Trasporti è in «liquidazione giudiziale». La sentenza del Tribunale di Catania dopo il ricorso dei lavoratori

Una storia d'impresa paradossale. Un'impresa che poi è dello Stato. Per essere precisi: un patrimonio statale frutto di una confisca definitiva. La Società Grandi Trasporti srl è uno di quei tesori finiti nell'imponente indagine denominata Iblis su mafia e imprenditoria. Un'inchiesta mosaico da cui si sono aperti diversi filoni: uno di questi ha portato al provvedimento di misure di prevenzione che ha riguardato il colosso del gruppo Conti nel settore dei servizi portuali, specializzata nel noleggio gru e altre attrezzature. Un processo che nei diversi gradi è stato altalenante ma l'epilogo è arrivato nel 2017 con la confisca irrevocabile del 100% delle quote dell'azienda quindi affidata all'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e statali.
Da visura, composta da 427 pagine poiché ingloba anche la documentazione del fascicolo giudiziario, il 100% delle quote societarie risulta di proprietà del Ministero delle Finanze.
La società, l’11 settembre scorso, è stata dichiarata “fallita” dalla IV sezione del Tribunale di Catania. Anzi, per usare il gergo del nuovo codice, i giudici hanno dichiarato la liquidazione giudiziale della Grandi Trasporti. Ma poco cambia.
La sentenza sancisce il primo paradosso: l’indebitamento complessivo certificato dall’agente per la riscossione per complessivi 11.717.774,95 di euro. L’impresa di proprietà dello Stato è indebitata nei confronti dell’Erario. Cioè se stesso.
Ma come si arriva al fallimento? Dobbiamo andare indietro di un anno. Quando ai dipendenti della Grandi Trasporti è arrivata una doccia fredda. Anzi freddissima.
«Siamo spiacenti di comunicarle il recesso del rapporto di lavoro per giustificato motivo dal 10 agosto 2024». La data vergata nella lettera di licenziamento è del giorno prima. La missiva è firmata dall'ex presidente del Cda della ditta di contrada Serraci a Catania. Uno dei dipendenti ha passato un quarto di vita fra le attrezzature di Grandi Trasporti. L'ha vista nascere, crescere. Poi assorbita, ceduta e sequestrata. Ha visto anche apporre i sigilli dal Ros di Catania. Nel foglio A4 finito nella buca delle lettere del dipendente si legge che il 6 agosto 2024 era stata aperta la procedura di licenziamento collettivo. La «rescissione del contratto di lavoro per la totalità dei dipendenti» è stata decisa seguendo i criteri di scelta previsti da un accordo sindacale sottoscritto il 9 agosto 2024. Lo stesso giorno che sono partite le lettere di licenziamento.
Il lavoratore che, improvvisamente, si è trovato senza occupazione non ha ricevuto alcune mensilità e nemmeno il trattamento di fine rapporto lavoro che per legge deve essere accantonato dall'azienda. Analizzando la visura camerale, con relativi allegati, si notano due passaggi cruciali del percorso societario a livello contabile-finanziario. Il primo è il fatto che l'ultimo bilancio depositato risale al 2021. Ma dal 2021 al 2024 la società ha continuato a pagare i lavoratori. E restando operativa ha accumulato debito con l'Erario.
Il secondo step che salta agli occhi sfogliando l'imponente documentazione che accompagna la visura è l'atto emesso dall'Agenzia dei beni confiscati il 27 luglio scorso che è destinato alla Camera Commercio del Sud Est per informarla che l'assemblea dei soci l'8 luglio scorso aveva deliberato la «messa in liquidazione della società Grandi Trasporti» con la contestuale nomina nel ruolo di liquidatore dell'avvocato Francesco Giuffrè. La comunicazione serviva a consentire l'aggiornamento nel Registro delle Imprese.
Ma nel frattempo il dipendente licenziato, patrocinato dall'avvocato Giovanni Lotà, si è rivolto al Tribunale di Catania per poter ottenere gli «emolumenti da rapporto di lavoro subordinato accertati nei decreti ingiuntivi».
«Una società gestita dallo Stato - commenta Lotà - che non paga gli stipendi ai propri dipendenti incarna tutte le contraddizioni di un modello ibrido che fatica a trovare una coerenza sistemica tra forma giuridica privatistica e sostanza pubblicistica del controllo. Un paradosso di uno Stato che controlla tutto ma non risponde di nulla».
Al tavolo dei giudici arriva anche un secondo ricorso per l'apertura della liquidazione giudiziale del debitore, che «non è comparso all’udienza di convocazione ed è rimasto contumace».
Per il collegio della quarta sezione civile (procedure concorsuali) del Tribunale di Catania, presieduto da Mariano Sciacca e composto da Fabio Ciraolo e da Sebastiano Cassaniti (giudice relatore), sussiste «lo stato d’insolvenza».
«Dai documenti acquisiti – si legge nella sentenza - non emerge l’esistenza di attivo (anche il liquido) sufficiente a far fronte all’ingentissimo indebitamento nei confronti dell’agente della riscossione e ai crediti dedotti dai ricorrenti considerato altresì che l’ultimo bilancio pubblicato risale al 2021».
Con la dichiarazione dell’apertura di liquidazione giudiziale (alias fallimento) il Tribunale etneo ha nominato come curatore l’avvocato Lucia Bruno. «Siamo ancora in una fase embrionale - dice a La Sicilia - e la prima cosa da verificare è se la confisca riguardi solo le quote o anche i beni strumentali della società».
Se fossimo nel primo scenario, essendo un’azienda confiscata - e quindi i beni aziendali restano fuori dal provvedimento di confisca - si procede ad inventariare e la liquidazione giudiziale va avanti. Se invece si evince la «commistione» - cioè l’intero patrimonio è oggetto dei sigilli - allora si applicherebbe l’articolo 63 del codice antimafia e la procedura sarebbe di «competenza penale». Ma c’è anche un’altra strada all’orizzonte: il Ministero potrebbe presentare reclamo alla sentenza di liquidazione giudiziale.