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IL CASO

“La sedia vuota di Oslo, di nuovo in catene”: perché l’arresto di Narges Mohammadi scuote l’Iran

L’attivista iraniana, premio Nobel per la pace, è stata fermata a Mashhad durante una cerimonia in memoria dell’avvocato Khosrow Alikordi. Con lei, secondo i gruppi per i diritti umani, sono state arrestate altre voci note del dissenso. Il quadro: pene pendenti, condizioni di salute fragili, una repressione che si allarga. Cosa c’è dietro e cosa può accadere ora.

Alfredo Zermo

12 Dicembre 2025, 17:06

“La sedia vuota di Oslo, di nuovo in catene”: perché l’arresto di Narges Mohammadi scuote l’Iran

Una voce al microfono, senza velo, nel cortile di una casa del lutto. Un nome scandito a gran voce — quello di Majidreza Rahnavard, impiccato in pubblico nel 2022 — e un brusio che si fa coro. Pochi minuti dopo, il silenzio: urla, agenti in borghese, telefoni strappati di mano, i furgoni della polizia. Così oggi la premio Nobel per la pace 2023 Narges Mohammadi è stata nuovamente arrestata a Mashhad, nel Nord-Est dell’Iran, durante una cerimonia di commemorazione del noto avvocato per i diritti umani Khosrow Alikordi, trovato morto il 6 dicembre in circostanze controverse. Dove sia stata condotta l’attivista non è stato comunicato. Con lei, riferiscono la sua Fondazione e reti indipendenti di difesa dei diritti, sono finite in manette altre figure del movimento civile, tra cui Sepideh Gholian, Hasti Amiri, Pouran Nazemi e Alieh Motalebzadeh.

Un arresto che pesa più di altri

Il fermo di Narges Mohammadi ha un significato che va oltre la sorte — già drammatica — di una singola dissidente. Mohammadi è il volto internazionale della campagna contro il velo obbligatorio, la tortura in carcere e la pena di morte: un’agenda che il potere iraniano considera una sfida diretta al proprio impianto politico e sociale. La sua presenza a Mashhad, senza hijab, in un momento in cui la morte di Alikordi infiamma la comunità legale e militante — oltre 80 avvocati hanno chiesto chiarimenti sull’indagine — ha trasformato una cerimonia di lutto in un atto politico.

Chi è Narges Mohammadi oggi: simbolo e bersaglio

Fisica di formazione e giornalista, Narges Mohammadi ha pagato a caro prezzo la sua militanza. Secondo i dati resi pubblici da organizzazioni e istituzioni internazionali, è stata arrestata 13 volte, condannata in 5 processi distinti per un totale che supera i 30 anni di detenzione e 154 frustate; al momento pende su di lei una condanna a 13 anni e 9 mesi per “collusione contro la sicurezza nazionale” e “propaganda contro lo Stato”. Nel 2023, quando le è stato conferito il Nobel per la pace, era reclusa nel famigerato carcere di Evin a Teheran.

Negli ultimi 12 mesi, le condizioni di salute sono diventate una variabile cruciale: Mohammadi ha avuto attacchi cardiaci, è stata operata per una lesione ossea alla gamba ritenuta sospetta e i medici hanno certificato la necessità di un congedo medico prolungato, con controlli specialistici e fisioterapia. Da dicembre 2024, l’attivista si trovava in una forma di sospensione della pena per motivi clinici; una finestra di libertà che lei non ha mai interpretato come pausa, continuando a esporsi pubblicamente — anche davanti ai cancelli di Evin — senza coprirsi il capo, in aperta sfida alla legge sul velo.

Mashhad, un corteo, un nome scomodo: Khosrow Alikordi

Il luogo e il contesto dell’arresto sono decisivi per capire la posta in gioco. Mashhad, culla di forti poteri religiosi e centro nevralgico dei servizi di sicurezza locali, è la città dove l’avvocato Khosrow Alikordi — difensore di prigionieri politici e delle famiglie in cerca di giustizia dopo la stagione di “Donna, Vita, Libertà” — è stato trovato morto nel suo studio il 6 dicembre. La versione ufficiale parla di infarto. Colleghi e familiari sollevano dubbi: si parla di segni sospetti e, soprattutto, del sequestro delle 16 videocamere di sorveglianza dell’edificio, materiale che finora non risulta reso disponibile in modo completo. La richiesta è chiara: un’inchiesta credibile, trasparente, indipendente.

È in questo clima che Mohammadi ha preso la parola. La sua semplice presenza, per giunta a capo scoperto, è diventata un moltiplicatore di attenzione. Per le autorità, l’ennesimo “casus belli”; per gli attivisti, un segnale di continuità della protesta civile, malgrado la repressione.

Gli altri arrestati: una rete di impegni e biografie

  1. Sepideh Gholian: attivista nota per le campagne a difesa dei lavoratori, era uscita dal carcere a giugno 2025 dopo aver scontato, non senza ritardi, una condanna legata all’“insulto alla Guida Suprema” e ad altre accuse politiche. La sua presenza a Mashhad conferma che il mondo sindacale e quello dei diritti civili in Iran si toccano, e che le reti di solidarietà resistono nonostante anni di incarcerazioni e divieti.
  2. Hasti Amiri: giurista e figura di primo piano del movimento studentesco, nel 2025 è stata condannata a 3 anni di prigione — oltre a multe e restrizioni — per “propaganda contro lo Stato” e apparizione in pubblico senza hijab. Il suo caso è diventato emblematico dell’uso della giustizia penale per colpire opinione e condotta personale delle donne nello spazio pubblico.
  3. Pouran Nazemi: attivista civica di lungo corso, più volte presa di mira dalle forze di sicurezza per la partecipazione a iniziative pacifiche e di advocacy. Il suo nome compare tra coloro che, secondo fonti indipendenti e gruppi per i diritti umani, sono stati fermati a Mashhad. La sua biografia incrocia momenti chiave di protesta nell’area di Khorasan Razavi e campagne per la giustizia delle famiglie colpite dalla violenza politica.
  4. Alieh Motalebzadeh: fotogiornalista, già vicepresidente dell’Associazione per la Difesa della Libertà di Stampa in Iran, negli anni recenti ha subito perquisizioni, convocazioni e divieti legati alla sua attività e al rifiuto di adeguarsi alle regole sull’abbigliamento imposte alle donne. La sua menzione tra gli arrestati rientra in un pattern di intimidazione che colpisce con particolare durezza le giornaliste.

Questi quattro profili compongono un mosaico coerente: lavoro, università, informazione, memoria delle vittime. È una società civile che tiene insieme rivendicazioni diverse ma convergenti, e che proprio per questo viene affrontata con l’arma del fermo preventivo, del processo esemplare, della pressione psicologica.

La sedia vuota e la prova del tempo

Il giorno in cui Narges Mohammadi ha ricevuto il Nobel, a Oslo la sua medaglia è stata appoggiata su una sedia vuota. Quella sedia ricordava al mondo che non c’è riconoscimento capace, da solo, di proteggere chi difende i diritti fondamentali in un sistema che li considera sovversivi. L’arresto di Mashhad riporta quelle parole al presente: “Donna, Vita, Libertà” non è uno slogan del passato ma un filo teso tra le celle di Evin, le aule di tribunale, le strade dove le donne scelgono se velarsi o meno, le case del lutto dove si pronunciano i nomi dei giustiziati.

Il tempo, in Iran, è spesso l’arma più tagliente: rinvii, custodie cautelari prolungate, processi lampo, fogli clinici usati come leva. Ma può esserlo anche per chi resiste: la memoria dei nomi, la documentazione paziente delle violazioni, la tenacia di chi scrive, testimonia, difende. È qui che l’arresto di Narges Mohammadi parla a tutti: non solo del suo destino, ma della durata di un’idea semplice e radicale — che i corpi, le parole e le vite non appartengono allo Stato.

Se e quando rivedremo Narges libera, dipenderà anche da quanto questa idea saprà attraversare frontiere, istituzioni, opinioni pubbliche. Per ora, resta una scena: una donna senza velo che affida a un microfono i nomi dei morti, e una porta che si chiude dietro di lei. Non è la fine di una storia. È la prova che, in Iran, la storia dei diritti non può essere sepolta con un arresto.